Ci piace vedere sembianze umane negli oggetti. Un volto, un corpo o una parte di esso (l’ineffabile sineddoche, per esempio, la si può cogliere qua e là più spesso di altre). Lo si fa anche con i fenomeni naturali: nuvole, pietre, piante e profili del paesaggio. Ovunque l’uomo si manifesta, ovunque figura.
Si tratta di pareidolia, “l’illusione subcosciente che tende a ricondurre a forme note oggetti o profili (naturali o artificiali) dalla forma casuale” (Wikipedia).
Quelle naturali sono somiglianze che hanno il sapore stucchevole del poetico; fugaci, come capita con le nuvole, che rendono la scoperta di un volto sorprendente e deludente (la figura si dissolve ancor prima di poterla additare e condividerla con qualcuno), o perché fatichiamo a riconoscerla se non riusciamo a ritrovare l’angolazione e il favore di luce opportuno come capita per il profilo in una roccia. Ma con gli oggetti è tutta un’altra cosa. L’uomo che riscontriamo negli oggetti ha le qualità della concretezza, della durata. Comunque lo giri la sua analogia con noi non cambia. È una gran bella cosa che gli oggetti ci somiglino.
Dalla teorizzazione del “correlativo oggettivo” in letteratura tale rapporto si è sviluppato ed evoluto. Siamo passati attraverso fasi di innamoramento e delusione, vicinanza e terrore. Ma di questo parlerò un’altra volta.
È una bella cosa, dicevo, che ci somiglino; è rassicurante, è la prova che tra noi e loro c’è un’intesa, tanto che siamo indotti a credere che ci sia anche una simpatia reciproca, una contiguità sentimentale e una continuità quasi biologica (come avviene tra animali: un po’ più scontata per ciò che è naturale, meno scontata per i prodotti artificiali). Gli oggetti li produciamo perché ci sono utili, per i nostri bisogni, per la nostra compagnia. Forse è per questo che alcuni vengono studiatamente fatti assomigliare a un volto, a una parte del corpo. Per farceli sentire immediatamente vicini. Ci rassicura che gli oggetti siano in relazione con noi anche dal punto di vista estetico, non solo funzionale. È qualcosa in più, una sorta di bonus o upgrade. Si fanno amare. Vogliamo amarli. Perché in fondo ci rappresentano e ci aiutano. Non possiamo farne a meno. Non poter fare a meno di una cosa che si detesta o fa orrore sarebbe una bella seccatura.
Non solo vediamo volti umani negli oggetti, ma li creiamo apposta così, human friendly anche nell’aspetto, lavorando sui materiali per avere questo ulteriore beneficio.
È il sesto giorno dell’uomo.
Quando abbiamo bisogno di compagnia, per esempio, siamo capaci di adeguare un oggetto allo scopo.
Ci sarebbero esempi più intimi di questo di Wilson, ma può bastare.
E poi, con pochi segni stilizzati, abbiamo realizzato una galleria di volti per tutte le situazioni emotive: le emoticon, più vere dei volti, più eloquenti e più comunicative di come siamo.
Ma queste somiglianze sono solo frutto della fantasia? Sono illusorie? Siamo spinti e fuorviati dal desiderio di vederla così, ovvero il desiderio che ci sia qualcosa al di fuori di noi che ci somigli, che ci capisca, che possa entrare in relazione con noi senza deluderci come gli altri umani inevitabilmente fanno? Che si offra per intero, che si metta a disposizione, che ci ami? Col quale riconoscersi legati in un unico destino di consumo, deperimento e cessazione di funzionare? E soprattutto che non ci faccia patire la povertà e il bisogno, aiutandoci tutti i giorni e senza i quali saremo persi?
L’umanità che ravvisiamo negli oggetti invece, è soltanto apparentemente umana. Gli oggetti che vediamo umani, ai quali diamo la parola, rimangono muti a guardarci, estranei e mal interpretati.
Sono alieni. Volti e corpi di una minaccia incomprensibile, senza linguaggio. Freddi e contundenti. Illusioni empatiche, che ci fanno consegnare volontariamente in schiavitù, e ci fanno sentire sempre in difetto. Alieni. Alieni tirannici.
Low, Double negative, SubPop, 2018
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